La notte in cui i Quattro Cavalieri rimasero in tre
Questo articolo contiene moltissimo metallo pesante, quindi espressioni scurrili, volgarità e parolacce. Se ne sconsiglia l’utilizzo a benpensanti, minorenni, discotecari e chierichetti.
E’ finalmente arrivato il momento che scriva queste parole. Mi rattristano, mi riempiono di gioia, mi fanno sentire ancora un fottuto metallaro. Come avrete di certo saputo sono un grande appassionato di musica, nonostante il mio physique du role mi abbia sempre impedito di suonare un qualsivoglia strumento. Sta di fatto che quando con strampalata anarchia tentai di diventare un musicista metal (si, proprio per quel motivo lì, mica per altro) mi buttai a peso morto sul basso.
Sapete perché? Per colpa del signore qui sopra. (e di quell’altro signore inglese che fa comunella con uno zombie) Quando tre giorni dopo aver ascoltato il Black Album andai a rifornirmi di dischi dei suddetti, scelsi senza esitazione Master of Puppets (all’epoca un CD costava trentamila lire, la mia paghetta settimanale era di venti, ecco perché uno solo). Lo scelsi perché come ogni appassionato ne conoscevo la fama, sapevo che era un disco leggendario, un epico viaggio sonoro dentro la testa di questo capellone che aveva tutto tranne che del metallaro. Lo feci suonare dentro il lettore CD portatile mentre me ne tornavo a casa in autobus e in quel momento mi resi conto perché tutta quella gente affermasse che dopo quel disco i Metallica non erano più gli stessi. Erano come morti, svuotati, rinsecchiti dentro un dolore sordo e alcolico, una specie di autismo coatto, un masochismo incomprensibile ai più ma non a chi li ha ascoltati (e amati) come ho fatto io.
La macchina di distruzione Metallica/Alcoholica era in tour in Europa e stava vandalizzando e mettendo a ferro e fuoco la Scandinavia in quel 1986. Non oso immaginare cosa fosse, assistere a quegli show: aperti da Battery, inframezzati da Seek and Destroy, Creeping Death e Pulling Theeth e chiusi, è il caso di dirlo, prendendo a mazzate sulle palle il pubblico con Damage Inc. Potevano scongelare la Lapponia.
Doveva fare abbastanza freddino quella notte in Svezia. La notte del 27 settembre sarebbe passata in viaggio sul loro tour bus soprannominato, in certe occasioni, Edna Louise; (che ragazzi allegri! E che ragazze sportive!) quella volta invece Kirk E Cliff decisero di giocare a carte, niente soprannomi. Dovevano spartirsi i “posti prestigiosi” attaccati al finestrino per la notte: Burton, più culo che anima, a quanto si dice, vinse la partitina e poté dormire in zona vip.
Mentre tutti dormivano, nel silenzio della notte del Nord, qualcosa andò storto. Terribilmente storto. Ancora oggi storiacce sui motivi dell’incidente si rincorrono: alcolismo dell’autista, colpo di sonno, ghiaccio sull’asfalto. Nessuno però ha mai citato il Carretto Fantasma, la leggenda scandinava della morte, per fortuna. Erano ormai le prime luci del mattino quelle che forse l’autista vede, forse si è solo distratto a guardare l’alba; è uscito dalla carreggiata all’altezza della cittadina di Ljungby perdendo totalmente il controllo del mezzo, che si ribalta sul lato destro.
Tutti si devono essere svegliati credendo di ripetere l’allunaggio, o magari con un fottuttissimo mal di testa da sbronza; sono in mutande, scarmigliati e ammaccati. Sono tutti fuori, tutti tranne uno e si guardano come se si incontrassero per la prima volta in vita loro. James, incredulo, perlustra la zona quando, credo con indicibile orrore, vede due gambe di burattino penzolare da sotto il pullmann: sono, erano, quelle di Cliff.
Clifford Lee Burton, di Frisco, ventiquattro anni e duecentosessanta giorni, musicista stellare, è morto alle 7 del mattino del 27 settembre 1986.
Doveva esserlo sul colpo,almeno è quello che tutti hanno sempre auspicato; era stato sbalzato fuori e aveva rotto il vetro col suo corpo. Mi sono sempre chiesto se se ne sia accorto, o se invece i benevoli dei della musica gli abbiano permesso di svegliarsi in paradiso assieme ai suoi eroi (Non lo saprò mai, perché da morto finirò nel paradiso dei metalmeccanici sbiellati, purtroppo).
Gli altri vennero portati in ospedale per gli accertamenti e poi rispediti in tour. Kirk, suo amico fraterno, in stanza con Jhon Marshall il roadie, era talmente shoccato che dormì con la luce accesa, James si attaccò alla bottiglia spaccando mezzo albergo. Anche Dave Mustaine, non certo prodigo di gentilezze verso gli ex compagni, gli dedicò quel granitico omaggio che è In my Darkness Hour. Tributi e ricordi da parte dei colleghi non si fecero attendere: Among the Living degli Anthrax, i Metal Church (di Jhon Marshall), i Primus, Dimebag Darrell (chissà com’è adesso, suonare con lui!). Da morte le persone diventano altro, ma mi sembra di poter affermare che Cliff fosse davvero come veniva descritto da tutti. Lo capisci ascoltando i suoi tre album: Kill’em all, Ride the lightning, Master of puppets. Non solo, anche ascoltando…And justice for all, il monumentale tributo post mortem.
Nei primi tre la presenza di Cliff è quasi ingombrante; …And justice for all invece è come un buco sonoro, l’assenza del basso come se fosse registrato in ultrasuoni udibili solo dai fan più accaniti è il grido di dolore di un lutto mai espresso. Non ha importanza se la colpa sia di Tompson (colui che mixò il suono) o di Lars Ulrich.
I Metallica avrebbero potuto (e magari dovuto) fare come gli Zeppelin, ma non lo fecero. Non vollero smettere di suonare assieme; con la canonica frase di rito dissero che “anche lui avrebbe voluto così”. Il problema è che credo fosse vero. Quindi iniziarono i provini più assurdi del metal anni ottanta e la lotteria venne vinta (anche se era solo il premio di consolazione) da uno sconosciuto Jason (Newkid) Newsted dei Flotsam and Jetsam. Un ragazzo di campagna fan sfegatato di Cliff: ombroso, gentile e schivo, che suo malgrado per tutta la sua permanenza nel Metallica sarà sempre “quello nuovo”. Quello che non conta un cazzo, che suona ma in fondo non è uno di noi. Sapete una cosa? A me quel ragazzo è sempre piaciuto. Jason è cazzuto e ha comunque sopportato cose che la maggior parte dei musicisti forse non avrebbero digerito. E non venitemi a dire che anche io col Wherever i may roam tour da finire sarei stato ben felice di essere trattato come l’ultimo dei cretini. Certo che il suo conto in banca deve averlo consolato, ma se decidi di fare il provino per una band come quella è perché vorresti farne parte davvero, e non solo nelle foto ricordo. Jason è rimasto in molti cuori, nel mio soprattutto; gli ho sempre portato un gran rispetto. Grazie, ragazzo, hai combattuto con onore.
James racconta spesso di come di quei periodi abbia dei vuoti assoluti. Erano una banda di tossici alcolizzati, dediti al vandalismo e alla distruzione. Nel frattempo però trovarono il tempo di rialzarsi e rimettersi a correre. Peccato che prima avrebbero dovuto imparare nuovamente a camminare. Il 25 agosto 1988 infatti fecero uscire il quarto album in studio, il summenzionato …And justice for all., l’ultima collaborazione col produttore Fleming Rasmussen. Il 13 agosto 1991 esce invece il Black Album, il primo che vide la (scellerata) collaborazione con Bob Rock (scelleratamente) proseguita sino al 2003. La differenza tra i due album è abissale, sotto gli occhi di chiunque abbia ascoltato due o tre dischi rock, non ci vuole il diploma di conservatorio per rendersi conto che se Rasmussen rimaneva in squadra forse, le cose sarebbero andate diversamente.
Il problema coi Metallica è proprio questo: se fosse, sarebbe stato diverso. Peccato che le cose succedono, si muovono e il dubitativo è un inutile espediente utile solo ai pigri e ai perdenti.
Il vero problema però non va cercato nelle dinamiche del business della musica ma nella vita reale. In quei momenti in cui anche se ti chiami James Hetfield o Kirk Hammett sei comunque solo; i momenti in cui la notte ti svegli di soprassalto tutto sudato perché hai visto qualcosa muoversi nel buio, e poi ti rendi conto che quello che si muoveva è dentro di te. Il dolore, il rimorso, un senso di colpa per una colpa non tua, perché tu sei vivo, vorresti vivere ma una parte di te è morta quella notte, vivi solo a metà, come se i sogni e le speranze fossero finite schiacciate sotto un autobus su strade sconosciute. Quando sei un ventenne che passa dal vivere in una comune metal mangiando a turno in mensa a spostarti con l’elicottero per raggiungere lo studio di registrazione, il tutto in una manciata di anni, beh gente, vorrei vedere voi. Forse si sono venduti, hanno cannato album che non voglio nemmeno ricordare, ma forse era l’unica cosa che potevano fare. Si sono rialzati correndo a perdifiato, dovevano seminare il fantasma sferragliante di Cliff, e non lo hanno fatto.
Io ho amato i Metallica. A modo mio lo faccio ancora con tutto il cuore, nonostante tante cose. Death Magnetic mi è piaciuto molto (sia santificato Rick Rubin!) e lo ascolto, ogni tanto.
Oggi che tutti (noi e loro) abbiamo risolto il problema dell’acne per passare a quello delle zampe di gallina, sono venuto a patti con questa (leggendaria) storia, ho capito tante cose, le ho accettate in quanto parte dell’evoluzione dell’uomo. L’unica cosa che mi auguro è che a elogiare un certo essere che si spaccia per musicista perché indossava una loro maglietta non sia il musicista bensì il papà orgoglioso delle sue bellissime principesse. Ho amici che per l’amore delle loro bambine si umiliano abbassandosi al pubblico ludibrio, quindi, davvero spero sia l’amore paterno. Se così non fosse invoco Lord Arimhan e i Dark Funeral che hanno promesso un sacrificio rituale allo stesso giovane, entusiasta anche per la loro ultima fatica in studio. Magari per entrambi…
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