La Fame Di Tito
Buon giorno miei cari amici vicini e lontani e dirimpettai! Ormai le sospirate ferie estive sono finite. Si torna al mondo reale ma noi non ne abbiamo molta voglia quindi, noi qui in Officina, abbiamo pensato di rendere meno pesante il rientro. Lo facciamo con questo racconto del 2011 che ci piace molto e ci ha divertito. L’ho scritto in un momento strano e bizzarro della mia vita, un momento che definisco “inclassificabile”. La storia di Tito è un invito a non spegnere la propria fame per la vita, perché potrebbe essere pericoloso. Proprio come per il piccolo Tito, rapitore di fate svagato come pochi….
Buona lettura!
La fame è una sensazione perfetta e fine a se stessa.
Non parlo della fame provocata dalla povertà dei mezzi e che coinvolge il corpo: parlo di quel sentimento preciso e quadrato che ci coglie innanzi alla bellezza delle forme. Il desiderio di possedere ad ogni costo. Questa è la Fame di cui parlo.
Un desiderio che sembra non avere fondo, che strugge e distrugge, un desiderio così forte da farci impazzire. Certe persone l’hanno sempre: è più forte di loro. Non riescono a viverci lontano.
E’ il loro motore; vite che gravitano attorno all’unico bisogno essenziale: Possedere.
Ogni desiderio ha la consistenza del peccato e la concordanza degli dei benevoli o malevoli che siano. A volte però queste persone devono scendere a patti con quelli malevoli perché è l’unico modo di veder saziata quell’immane voragine.
La storia di Tito è questa. Una lunga discesa verso un buio senza sogni o speranze.
Non è diverso né da voi né da me: respira, parla, mangia e forse una volta sognava anche, ma questo non ci è pervenuto. Sappiamo quello che conta su di lui: ovvero che di Fame ne ha avuta troppa.
A volte la bisboccia conduce non solo all’indigestione, ma anche alla morte. E’ un pericoloso gioco col fuoco che serve per cucinare lentamente le voglie deliziose, edulcorate, dolcificate, senza sale e con troppo peperoncino. Tutto quel desiderare, cucinarlo una volta: e morirne.
Lo stomaco ha una capienza massima e una volta superata le conseguenze possono essere irreversibili. La Fame è una droga potente, devastante, che corrompe.
Non solo toglie il vero appetito, ma anche il gusto, quello scivoloso che sta sulle cose belle e le rende appetibili; quando tutto si corrompe allora perde senso, e le cose belle sono veicolo di morte e distruzione e porvi rimedio diventa difficoltoso, quasi una missione votata al massacro generale. La Bellezza è la qualità degradante della morte, il fluido viscoso in cui le menti aperte si degradano e perdono la strada, la Bellezza ha il potere sadico di mostrarti il lato al sole dell’inferno, quello piacevole che prima ti attira e poi ti uccide. Perché all’inferno non nevica mai.
La Bellezza è la sostanza dolcificante di una vita vuota e piacevole quando perde il senso ultimo e diventa volgare e reietta, il senso del piacere fine a se stesso muore strangolato, allora la Bellezza diventa tutto questo: una malattia mortale.
Tito era una persona molto particolare, credo di averlo notato per la sua straordinaria altezza unita a un pallore e una magrezza insolite. Aveva capelli neri come la pece, ma non sembrava malaticcio o troppo debole, anzi: dava l’impressione che questo dipendesse in gran misura dalla sua Fame.
Cercava di consumarlo come farebbe un’amante troppo vorace, segnato dalle attese e dai desideri che sembrano non trovare mai una risposta positiva. Tito era un ragazzo taciturno assorto in un mondo di favola che solo lui vedeva; come se vivesse sospeso in un mondo di divertimenti sfrenati, beffardo, astuto, deliziosamente colpevole. Parlava con voce bassa e musicale e non accennava mai nulla di se, tutto quello che so, l’ho scoperto da solo o mi è stato raccontato da altri; ogni cosa su di lui ha il sapore della storia leggendaria: sembra quasi un personaggio felliniano nero e un po’ sadico con tratti di crudeltà, una crudeltà selvaggia e indomabile, non consapevole e quindi non condannabile. Mi ha incuriosito da subito con quel suo abbigliamento nero quei capelli corvini e lo strano modo di tenere la testa da un lato, come chi la sa più lunga del demonio. Era di famiglia ricchissima: ricchezza accumulata tra acciaierie, ristoranti di lusso, immobili, e dopo grazie a un giro di prostitute favolose e tutte consenzienti.
Pare non abbia mai avuto contatti con la malavita, ma ovviamente nessuno vi metterebbe la mano sul fuoco; suo padre non rideva mai e la madre morì quando lui aveva pochi mesi.
Da allora il padre si chiuse in se stesso e lo affidò a tate, zie e istitutrici di ogni sorta. Ha vissuto un’infanzia (in) felice e ricca: in tutte le sfumature del termine.
A quanto si favoleggia la sua prima avventura sentimentale la ebbe a dodici anni con la “tata”, una bellissima tedesca di quarant’anni che si era innamorata di quel bambino altissimo e magro come una ragazza: Inge non resistette a lungo senza cadere vittima del giovane, che a quanto pare aveva capito molto precocemente che genere di doti aveva. A diciassette anni lo trovai seduto nel mio ufficio sicuro come un dio greco che avrei firmato assegni a vuoto pur di averlo nella mia scuderia.
E aveva ragione: un ragazzo con quelle doti lo avevano davvero in pochi, anzi a Bologna non lo aveva nessuno, davvero. Mi salutò cordialmente, mi disse il suo nome e non fece altro che togliersi l’impermeabile nero da assassino seriale sotto il quale non aveva null’altro che tutta la sua innata dote. L’intoppo era la minore età, ma aveva risolto lui l’intoppo: aveva un documento, firmato dal nonno, in cui si liberava da responsabilità il sottoscritto. Era ovviamente falso come i soldi del Monopoli, ma un regista e produttore di film “per adulti” non si fa sempre degli scrupoli e tranquilli che io non me ne sono mai fatti, soprattutto quando un attore con quelle “potenzialità” bussava voglioso alla mia porta. Gli facemmo il test per l’HIV e tutte le altre: sano più di un pesce di fiume artico. La settimana dopo si presentò sul set, puntuale come la morte. Era sveglio e pronto, alle prime armi, ma con un desiderio e un’ambizione tali che lo distinguevano dalla massa: Non aveva rivali ed era un gran lavoratore. Credo dipendesse dalla giovane età, ma di Viagra non ha mai sentito parlare. Quello divenne indispensabile dopo, quando la Fame lo colse, quella vera di cui parlavo prima e vi assicuro che me ne dolgo ancora oggi che sono anziano e ormai pago della vita.
Nel 2009 eravamo giovani e splendidi, la morte era qualcosa di astruso, soprattutto per noi che godevamo alla grandissima. Tito era giovane e un po’ fesso, ma questo è normale: credeva di conoscere il mondo, ma era il mondo che conosceva lui, come diceva sempre mio nonno Osvaldo Paceallanimasua e non passò molto prima che la mia attrice di punta, Selina Tavelli, si dichiarasse cotta e non volesse altri che lui. Selina era così, appena un bel ragazzino nuovo arrivava sul set lo voleva solo per se, ma purtroppo il lavoro è lavoro e i veri professionisti non si fanno scrupoli di nessun genere: si lavora quando e con chi si deve, punto e basta. Anche perché tanto il capo ero io e nonostante fossero Divi, lo erano perché passavano sotto le mie mani: erano eterni come le scorregge di Dio. E sotto sotto lo sapevano e ne avevano paura. Perché, prima o poi, Dio avrebbe smesso di far peti.
Invece a Tito non fregava nulla: era il più giovane, sexy, ricercato e non sembrava toccarlo.
Dipendeva da quel suo essere al di sopra del mondo comune: lui era nelle favole assieme alle fate e credo le scopasse a ripetizione ridendo beffardo di tutti noi. Il suo sorrisino sardonico divenne un ghigno famelico quando conobbe quel debosciato di Sandrino Santi.
Nell’ambiente quel fottuto bastardo era noto col nomignolo di “Conte” per via di quell’aria dandy e trasognata che dipendeva solamente da tutti i soldi che guadagnava, spendeva e spandeva con la bamba. Roba di primissima scelta, non quella spocchia che trovavi ovunque: me la offriva continuamente, anche se le uniche cose che ho tirato su col naso sono stati il moccio da bambino e lo spray per l’asma. Non ho mai voluto nemmeno sentirla nominare; non solo perché ho sempre svolto il mio mestiere con onestà, ma soprattutto perché due giorni fa non avrei festeggiato il mio compleanno dritto come un fuso. (Hef è crepato per l’invidia, anche se poi creperò io di invidia per la tomba che gli toccherà occupare.) Sandrino fece breccia nel cuore affamato di Tito che divenne suo cliente abituale da subito, sin dalla prima tirata. Tito amava quella merda sbiancata con la benzina come fosse una bella donna: a diciotto anni il padre gli comprò un’Aston Martin Project-one 77: la hipercar più cazzuta che allora avessi mai visto, che ovviamente non sapeva ne poteva guidare, ma grazie a quella magica polverina riuscì a distruggerla in capo ad un mese.
Lo trovarono fuori come un balcone la notte di Ferragosto sulla statale Romea dentro ad un fosso che rideva come un pazzo: l’auto era un rottame di lusso e lui aveva graffi ovunque e bruciature di sigaretta in tutto il corpo.
Il padre s’incazzò come una pantera, ma gli comprò poco dopo una Pagani Zonda Tricolore.
Questa volta gli impedì di usarla per andare in giro la notte, poteva scorrazzarci di giorno, ma la discoteca no, per quella avrebbe avuto qualcosa di più consono.
Sapeva che faceva dei film, ma non ne conosceva la natura: quell’uomo ancora più strano del figlio, che non rideva mai ne partecipava alla vita attiva di quel ragazzo, che aveva come venduto al mondo e alle sue crudeli leggi e di cui non importava nulla. Le uniche cose importanti erano i beni materiali: per girare la sera gli regalò una Vauxhall VXR8, nera e rossa per poterlo sentire da un chilometro di distanza e dormire tranquillo.
Non era preoccupato per la sua vita, ma per quello che la sua esistenza rappresentava: un’assicurazione per il futuro delle sue aziende, le uniche cose che lo facevano sentire vivo e che voleva rimanessero dei Testoni per tutta l’Eternità. La Pagani durò sedici mesi ma la Vauxhall, beh, quella mi piaceva troppo e me la regalò. Non volle che la pagassi, era una specie di riconoscimento al mio lavoro. In cambio aveva una Pagani F Roadster e una Mercedes AMG SL 65. Per il mio trentanovesimo compleanno mi regalò un Patek Philippe in oro bianco e zaffiri fatto fare su richiesta e per mia moglie uno splendido Reverso di Cartier degli anni trenta, con inciso sulla cassa il suo soprannome: Cherì. Tito era folle, generoso e ricchissimo. Ne aveva tanti da regalare e lo faceva a profusione, a noi amici e non solo. Tutta quella bamba lo aveva rammollito, anche se ancora poteva essere Dio davanti all’obiettivo.
Mi resi conto, con occhio esperto, che un po’ per volta faceva fatica a tenerlo su naturalmente, anche perché la droga gli aveva dato l’illusione di essere meglio di un Highlander, immortale e divino. All’inizio la troia fa credere loro di essere il meglio del meglio, ma poi ce ne vuole sempre più e fu li che dalla bamba passò all’utilizzo sfrenato del Viagra. Smise quasi del tutto la polvere bianca per passare al triangolo blu. Il maledetto triangolo delle Bermuda dove si perdono le migliori intenzioni annegando per sempre.
Era l’unico modo che aveva per lavorare e per scopare al di fuori. Come in tutte le iniziative che intraprendeva anche nel privato era ormai fuori controllo: se non faceva sesso a ripetizione si sentiva perduto in un lago di dolore e solitudine. Era l’unico momento in cui si sentiva amato e voluto: credeva di trovare in quell’atto meccanico chissà quale mondo nuovo e inesplorato. Divenne un tifoso sfegatato del bondage prima, e del travestitismo poi.
Unì le due passioni, ma anche quello divenne noioso; iniziò a organizzare i baccanali più sfrenati che si erano mai visti a Bologna dai tempi dei lupercali romani.
Tutti volevano essere della partita: Tito era buono ed erano davvero i classici cani e porci a parteciparvi. Anche se col tempo si rese conto che stava dando ai maligni troppa benzina da bruciare, così, quelle feste goderecce e aperte a tutti iniziarono a essere esclusivi inviti segreti come il conclave. Solo pochissimi eletti avevano accesso ai saloni illuminati da candele e fiaccole, rettilari con ogni sorta di pericolo strisciante, svolazzante e saltellante.
A un certo punto gli venne in mente che il pteropus vampyrus, ovvero il chirottero più grande del mondo, fosse uno splendido esemplare animale da far svolazzare sulle teste dei suoi invitati. Lo aveva chiamato Jhon Holmes, e lo considerava il barboncino toy di casa.
Alla gente non importava molto che una cosa del genere partecipasse, poiché era “roba da Tito”, poteva andare, e andare alla grandissima.
Era il padrone di casa più munifico che ci fosse in tutta la Bologna nord e sud, quindi i suoi capricci potevano essere assecondati senza troppi drammi. Suo padre e suo nonno non ponevano domande imbarazzanti e se ne stavano nella villa di Sant’Agata, lontana e molto meno chiassosa.
Donne meravigliose esotiche e perverse, giovani uomini che non erano uomini e giovani donne che non erano donne, cibo, alcol, droghe, svaghi di ogni tipo: erano festeggiamenti che duravano giorni nella sua grande villa sul Colle dell’Osservanza, all’ombra di San Luca. I maligni dicevano che alla fine il cupolone sarebbe crollato per tutto quello che Testoni gli faceva vedere, che la Madonna avrebbe non solo pianto lacrime vere, ma si sarebbe strappata capelli e corona.
Fu in quel momento che iniziò a tenere il Diario.
E fu quello l’inizio della fine.
Di tutto.
Il Diario di Tito non era dettato dal sentimentalismo romantico che contraddistingue le anime pure: lo teneva solo perché la bamba gli aveva fritto le sinapsi e a modo suo voleva ricordare in un eventuale futuro quello che aveva fatto, detto, sentito e pensato. Non credeva che quel quaderno rilegato di pelle potesse diventare più prezioso della Sindone di Torino. All’inizio nessuno lo sapeva. Veniva al lavoro e ci dava dentro come sempre anche se col Viagra nella postina di Gucci, quando un giorno durante una pausa tirò fuori questo bel librone color rosso Tiziano e iniziò a scrivervi sopra come un forsennato. Lo notarono tutti perché ormai solo la Badessa del monastero del Corpus Domini della Santa poteva scrivere su un aggeggio simile e non un ventenne pornostar famoso in tutta Europa non certo per le sue doti letterarie; era come sempre nel suo mondo con le fatine da rapire e quindi degli altri non glie ne fregava un beato accidente, che morissimo tutti in capo a mezzora; lui era lì, chino come la maestrina dalla penna rossa a vergare chissà cosa.
Potevano essere benissimo cose strampalate legate a qualche sua nuova passione, per quanto ne sapevamo, forse stava solo riclassificando il lavoro di Linneo. Tito ne era capace, solo per poter passare i tempi morti tra una ciack e l’altro senza invecchiare per la noia.
Mi resi conto che per lui era un affare serio quando lo trovai intento a distruggerne delle parti con l’accendino. Ovviamente non disse nulla al riguardo, ma era sempre più preoccupato e stanco, inoltre non si allontanava mai da quel coso, nemmeno quando girava. Voleva che lo tenessi io sotto le chiappe o Cherì, ma che non si allontanasse mai da noi, perché eravamo gli unici di cui si fidasse.
Mentre era occupato al lavoro mia moglie commise il “peccatuccio” di dare una sbirciata: e fu rapita non dalle doti letterarie di Tito, ma da tutto il cataclisma che ci stava sopra.
Con la velocità di un colpo di rivoltella ne fece una fotocopia.
E la sera iniziammo, piccoli e colpevoli, a leggere quei deliri: per fortuna che lo facemmo altrimenti forse quel ragazzino sarebbe morto entro pochi giorni. Gli salvammo la vita e come vigliacchi, o grandi eroi coraggiosi, non gli dicemmo mai nulla.
Due giorni dopo, riuscimmo a trafugare l’originale e a gettarlo nel fuoco con la copia. Lo rubammo mentre Tito lo custodiva personalmente: era così sbadato che non si accorse di mia moglie che lo sfilava dalla sua bisaccia e lo salvammo da se stesso. Non solo vi aveva scritto le sue impressioni, ma anche nomi e cognomi in maniera perfettamente leggibile; c’erano storie di sesso, droga, alcol, dipendenze di ogni tipo, preferenze erotiche e di orientamento politico e sessuale.
Roba da salotto buono di Kennet Anger. Se lo avessimo pubblicato avremmo potuto smettere di lavorare per almeno sei generazioni. Nomi d’oro e d’argento, fatti scabrosi, posizioni e paure: una specie d’incrocio tra le mille e una notte scritte male e l’amante di Lady Chatterly scritto peggio. Boccaccio e Hefner a braccetto sotto le querce del Viale del Tramonto.
Tito non si rendeva conto della boiata pazzesca che era. Una volta a casa si accorse che non c’era più; corse sul set come un pazzo, con stridore delle gomme della sua Corvette 3 che urlavano peggio di Selene nell’Isola del Tesoro: arrivò sudato ed eccitatissimo; piangeva ridendo come un demente e continuava a ripetere all’infinito, come un mantra, “se lo trovano sono fottuto”, ed aveva ragione. Lo assecondammo e rivoltammo come un calzetto il set. Pago della faticata se ne tornò a casa. A rivoltare anche quella. Era come sparito nel nulla, andava ripetendo e aveva ragione. Bruciato, andato, perduto.
Fu come se lo avesse rimosso dalla sua esistenza: nono ne parlò più e ricominciò la sua Fame per qualcosa di mai provato. Le feste erano molto diminuite e la gente dorata se ne crucciava, ma altri munifici anfitrioni invadevano le strade lastricate di vergogna della città e presto nessuno vi badò.
Adesso si annoiava un po’, non era più eccitante come prima quando il proibito gli era sconosciuto: ora che ogni via della perdizione era stata solcata non c’era più gusto.
Perse interesse e trovò altro con cui divertirsi e sputtanare denaro a profusione. Non che il suo lupercale avesse chiuso i battenti anzi, il sesso era pur sempre l’unica forma d’amore che gli era concessa dal mondo, ma adesso aveva scoperto il brivido del gioco d’azzardo.
Poker, black jack e roulette: triade magica di un rito da consumare tra Campione, Venezia e Buje; tutte le notti possibili. Fantastiglioni di dollari vinti e persi. In una notte al Casinò di Montecarlo era riuscito a lasciare in mutande un francese con una mano di poker: aveva vinto pure la figlia minore e la moglie. Poi basta. Quella notte aveva fatto toccare un fondo così lontano dal sole a un uomo che decise che non ne valeva la pena. Non perché Tito fosse d’indole cortese, solo perché gli dava fastidio la volgarità di chi striscia.
Il brivido non gli correva più lungo la schiena e la Fame era ricominciata. E se era possibile, più intensa di prima. La Fame di Tito era così: tutti ne abbiamo e la usiamo per vivere e quando possibile per migliorarci come persone, ma la sua, era una mostruosa entità tentacolare che affamava chiunque gli si avvicinasse troppo; doveva avere e mangiare come un forsennato consunto da un desiderio inappagabile. Doveva avere tutto: sesso, donne, droghe, alcol, auto di lusso, case, telefoni, oggetti inutili ed essere considerato il più grande pornostar vivente, il migliore di tutti, quello con più centimetri nelle mutande in assoluto.
Peccato solo che i centimetri non li avesse dentro la scatola cranica, a volte mi chiedevo come facesse a non pisciarsi sui pantaloni. Tito era un disastro completo: non riusciva ad allacciarsi le scarpe e pensare nello stesso momento figuriamoci se poteva essere il pornostar più grande: a dimensioni faceva paura, ma il talento era quel che era. Certamente aveva un’attitudine naturale, ma non poteva competere con i nomi più importanti del nostro mondo.
Aveva troppa fame e troppo poco giudizio. Non prendeva l’AIDS perché gli stavo addosso come un pezzo di nastro adesivo e non si sa bene come lo aveva capito di mettere sempre la gomma, soprattutto se non sapeva chi fosse la donzella di turno. L’unica cosa che non ha mai avuto sono state le malattie veneree e deve dir grazie al suo paparino di riserva.
Era un coglione nato, simpatico come pochi e ricco da fare invidia, ma non era un suo vanto il denaro, ci era cresciuto dentro come una pianta acquatica e per lui sarebbe stato uguale nascere in mezzo alle pulci; avrebbe trovato il modo di sguazzarci comunque. Non si faceva problemi per nulla: e questo era un grandissimo problema per noi altri che gli pulivamo il moccio dal naso. Era un satanasso senza freni cui si doveva mettere le mutande dal verso corretto. E toccava sempre a noi poveri stronzi, che in fondo gli volevamo un bene dell’anima.
Aveva questa dote: la gente s’innamorava d’istinto appena lo conosceva meglio, anzi, quando lui decideva di farsi conoscere. Lui non ti vedeva: ti viveva, senza lasciarsi fare altrettanto.
Le donne gli correvano dietro a causa di quello che vedevano sugli schermi: anche se le meglio informate hanno sempre dichiarato, e sarebbero pronte a ripeterlo sotto giuramento, che nel buio dell’intimità era anche meglio. Per fortuna non ho mai dovuto approfondire l’argomento.
Credo che Cherì lo abbia fatto, ma non me lo ha mai detto nei sessantotto anni che è stata con me; sinceramente non voglio nemmeno saperlo, è un segreto che riposa con lei nella tomba.
Quello che so di certo è che un anno dopo il diario Tito, pian piano, si spense sparendo nel buio della notte.
Una mattina suo nonno lo trovò nel bagno nudo come un verme in piedi davanti allo specchio: con un rasoio elettrico si era rasato a zero la testa; da che era al mondo non lo aveva mai fatto. Con un ghigno dei suoi ripeteva a se stesso che il mattino ha l’oro in bocca.
Qualche giorno prima aveva detto che era un po’ stanco e per la prima volta in quasi quattro anni si prese una vera e propria vacanza.
Da tutto quanto. Anche da se stesso, a quanto potevamo costatare.
Si era chiuso in casa tutto solo come non faceva dai tempi dell’infanzia quando passava ore e ore a giocare con tutto quello che gli altri bambini nemmeno potevano sognarsi nei momenti più selvaggi: tutti i giocattoli che potevano venirti in mente a casa sua, anzi nella sua stanza dei giocattoli, di certo c’erano. Aveva una camera di circa cento metri quadri piena di costruzioni, auto, case, motociclette elettriche, pupazzi e robot a grandezza naturale, ogni sorta d’invenzione ludica era dentro quella stanza. Che somigliava più che altro a un tetro museo dei ricordi andati.
La vidi una sera durante una cena: per sbaglio invece della toilette infilai quel lugubre santuario di un’infanzia infelice e colma da far paura.
Il nonno e il padre, di conseguenza lo stesso Tito, soffrivano senza dubbio della forma più grave di horror vacui che avessi mai potuto vedere: ogni spazio vuoto doveva essere riempito. Per dimenticare quel vuoto così immenso lasciato dalla donna più importante delle loro esistenze che pian piano si erano svuotate come palloncini lasciati a sgonfiare sotto le intemperie.
Sua madre era una bellissima modella parigina di diciannove anni, vidi le sue foto, conservate anch’esse come dentro ad un triste museo della memoria durante le mie ricerche del bagno.
La maggior parte delle cose mi vennero raccontate dal padre dopo il disastro: si aprì con me che ero stato l’unico al mondo a tentare di rendere quel ragazzo selvaggio una creatura urbana.
E di certo l’unico, assieme a mia moglie, a volergli bene, un bene dell’anima.
Era una donna bellissima e non era difficile capire il motivo per cui quell’uomo che doveva essere molto diverso allora se ne innamorò come un pazzo. La portò in Italia quando aveva solo sedici anni: la voleva ad ogni costo. E i soldi non erano certo un problema. Credo che lei fosse lusingata da quel bel ragazzo di quindici anni più grande che faceva follie costosissime per lei. Era già una modella allora, ingenua ma non troppo ed era riuscita a non farsi zompare da chiunque, o almeno era quello che gli aveva fatto credere. Isabel, questo era il suo nome: la ragazza più bella che si potesse vedere a Bologna. Aveva capelli neri, lunghissimi e lisci come seta.
Il tratto caratteristico ereditato dal figlio e il motivo per il dolore lancinante del poveretto ogni volta che quel ragazzo gli passava accanto. Della madre Tito ereditò anche lo spirito un po’ troppo liberale, ma se ne accorse solo dopo: forse aveva semplicemente voltato la testa dall’altra parte per non provare troppo dispiacere. Isabel amava molto la vita, i lussi sfrenati, le droghe e il sesso compulsivo e disordinato: chiunque andava benissimo. Testoni era così innamorato da permetterle qualsiasi cosa; solo le chiese di non rimanere mai incinta. A diciassette anni però Isabel voleva un gioco nuovo più precisamente una bambola che fosse tutta loro: decisero di avere un figlio. Lei voleva una bambina da trasformare in una piccola sosia di se mentre per lui non faceva molta differenza. Si sposarono appena lei fu maggiorenne e Tito nacque giusto un mese dopo le sontuose nozze. Non era la sua sosia, ma per Isabel andava bene ugualmente: era un bel bambolotto comunque. Decise di non tagliargli i capelli e lasciargli una buffa frangetta che lo faceva sembrare un cadetto di guascogna, nessuno mai prese la decisione di tagliargli i capelli perché a Isabel piacevano da matti e così fu.
Fino a quel mattino disgraziato li aveva solo mantenuti all’altezza delle spalle, neri come quella notte in cui era precipitato per sempre e da cui non sarebbe mai più uscito.
La madre riprese le sue ricreazioni da cui il marito era escluso, portava il piccolino ovunque, anche alle feste dove era lei la festeggiata. Una mattina all’alba quando Tito aveva circa tredici mesi, il marito di ritorno da un viaggio di lavoro la trovò in camera da letto, in un mare di sangue: aveva dato da mangiare al piccolo, si era vestita da gran sera e si era tagliata le vene adagiata sul talamo nuziale, come la bella addormentata nel bosco. Peccato solo che da quel bosco non sarebbe mai più tornata. L’uomo divenne folle di dolore. Accanto c’era un biglietto sporco di sangue dove Isabel spiegava brevemente che doveva morire perché era stanca di vivere e soprattutto che il mattino ha l’oro in bocca ed il suo di mattino era finito da un pezzo. Mi prese un colpo quando disse così.
Tito diceva spesso le stesse cose. Il fatto era che Testoni aveva gettato via tutto quanto perché lo straziava troppo leggere delle parole così strane e senza senso.
Non poteva quindi che essere un qualcosa di loro, come un patto segreto e non scritto tramandato dai due. Forse l’eredità spirituale per quel bimbo nato per un caso strano della sorte.
Sua madre si era uccisa perché era stanca e si sentiva troppo vecchia. Tito si era rasato a zero dicendosi che il mattino ha l’oro in bocca. Non si era ammazzato. Si era solo annullato e non so cosa sia peggio. Era stata la Fame, anche se questo ancora non lo sapevo.
Il bisogno quasi fisico di avere e non dare, di tenere tutto dentro, avere a ripetizione per riprovare quel brivido intenso e struggente. Il legame a doppio filo che lo legava a quella mamma mai conosciuta che tanto aveva influito su tutti gli eventi futuri.
Lo avevano rinchiuso in una bella casa di cura con vista panoramica del bolognese ma credo che a lui non importasse molto. Teneva i capelli corti e non si guardava mai allo specchio, non ne teneva nemmeno in camera, non gli era mai cresciuta la barba e quindi per quello non c’era problema.
I capelli se li faceva tagliare dagli infermieri e andava sulla fiducia perché non voleva vedersi riflesso. Parlava pochissimo e quasi nessuno conosceva il suono della sua voce e devo dire che è un peccato perché aveva un bel timbro leggero e musicale, come campanellini dorati; era buffo quando rilasciava le interviste perché sembrava un bimbo. Ma era davvero entusiasmante sentirlo parlare, aveva una carica erotica dirompente che poteva sciogliere anche il ghiaccio nei bicchieri, le donne impazzivano per quell’uomo bambino delicato come un cristallo di Boemia. Che un mattino si era incrinato e aveva smesso di rimandare la sua musica al di fuori del cuore.
Due anni dopo il ricovero durante la visita settimanale che gli facevo accadde un evento imprevisto.
Mi salutò con gioia, mi abbracciò stretto e mi diede un bacio sulla guancia; rimasi scioccato e lo guardai come se venisse da Alfa Centauri. Iniziò a parlare con la sua vecchia voce, come non accadeva da almeno ventisei mesi: era sereno, rilassato, una persona nuova che non avevo mai conosciuto. A dire il vero ero preoccupato, credevo che quella fosse una farsa prima del suicidio e lo feci presente al dottore quando me ne andai. Mi disse che già lo sapeva e lo monitoravano con le telecamere di sicurezza. Tramite un sistema, di cui i pazienti erano all’oscuro, controllavano quelli a rischio. Suo padre mi disse in seguito che Tito era come nato una seconda volta: era come se non fosse mai sbroccato, era normale, come mai prima. Secondo il dottore era una nuova forma di malattia e preferiva tenerlo sotto controllo, ovviamente la famiglia concordava e non lo avrebbero ripreso a casa prima del tempo. Il padre nel frattempo si era risposato all’insaputa del figlio e quindi preferiva evitare casini, andava bene che rimanesse dov’era. Come se fosse un pacco postale scordato dall’ultimo postino del turno.
Mi faceva una pena infinita, ma allo stesso tempo aveva una serenità olimpica che scaldava il cuore di chi gli stava accanto. Secondo il dottore non sarebbe guarito mai, troppa merda gli aveva cotto il cervello, ma avrebbe comunque potuto avere un’esistenza serena e tranquilla, lontana dalle masse, come prima in fondo, nel suo mondo fatato da cui noi eravamo esclusi.
Fu in quel periodo che mi diede un grosso diario, dalla copertina di pelle nera, in cui aveva scritto delle cose che voleva leggessi solo il giorno del mio eventuale ottantesimo compleanno.
Risi come un matto perché credevo che sarei morto stecchito entro i cinquanta, ma avrei comunque rispettato il suo volere perché era serio come la morte mentre lo diceva, mi resi conto che era lucido come mai prima e quello era come un testamento non scritto.
Credo che mantenere fede al proposito sia stato provvidenziale. Quello che ho trovato in quel diario mi ha sconvolto, rattristato, amareggiato. Forse se lo avessi letto prima non avrei nemmeno compreso la portata del significato, quello profondo ed antico, la lontananza dai fatti è servita a non diventare matto a mia volta. Il giorno del mio ottantesimo compleanno, come sapevo che sarebbe accaduto, presi il diario e me lo divorai tutto d’un fiato.
Sapevo che sarei arrivato a quel giorno e sapevo che ne avrei visti molti altri perché me lo disse Tito con la chiarezza del veggente: mi predisse che avrei campato alla grande per tanto tempo.
Perché la Fame mi avrebbe lasciato stare. Non avrebbe permesso a Signora Morte di toccarmi.
Dovevo continuare a essere il suo custode, salvarlo dal mondo e da se stesso, solo io lo avevo fatto con convinzione e la Fame non mi avrebbe avuto. Ecco che ci risiamo, pensai. Era di nuovo fuori come un cocomero ad Agosto, sparlava come suo solito, ma in fondo al cuore sapevo che mi aveva appena detto una verità sacrosanta. La Fame non mi avrebbe ucciso perché ero il custode di Tito.
Un altro appena a casa avrebbe ridacchiato con la moglie e si sarebbe messo a leggere quel fottuto coso. Ma non io.
Non solo perché sapevo con certezza come so che il sole sorge da una parte e tramonta dall’altra che avevo parlato con una persona sanissima, più di me o voi. Io non sono Hemingway e credo ve ne siate accorti già da un pezzo, ma vi assicuro che leggere le cose di Tito è anche peggio.
Non solo è sconclusionato, ma scrive dando per scontato che il lettore sia perfettamente a conoscenza dei fatti su cui sta farneticando. Esattamente come quando era un ragazzetto pazzo di droga e ti raccontava cose che non avevano né capo né coda. Ho faticato all’inizio anche perché nonostante fossi molto più giovane, ero per sempre un simpatico vecchietto sporcaccione, ma una volta preso il ritmo tutto è filato liscio e a essere sincero mi sono divertito come non accadeva da tanto tempo.
Anche se il divertimento è durato poco: sono entrato a precipizio come Alice nel buco dentro la testa del mio caro vecchio Tito. E mi sono bruciacchiato le aluccie da angioletto: sapevo che era pazzoide a puntino, ma non pensavo che il livello a cui aveva deciso di scendere fosse posto così in basso nella scala dell’evoluzione. Aveva riscritto ampi brani del vecchio diario “segreto” e ne aveva aggiunti di nuovi. Parlavano del suo rapporto col padre e col nonno che come c’era da aspettarsi era uno schifo su tutti i fronti: solo, sballottato tra tate e zie varie capaci solo di dargli una guida materiale. Non ha mai ricevuto un’educazione sentimentale.
Si sentiva il bambino più solo del mondo e iniziò a parlare con la madre morta. Fino qui tutto normale, no? Vero. Il problema fu che a un certo momento la madre iniziò a rispondere.
Sentiva distintamente la sua voce raccontargli episodi della sua vita in Italia e in Francia.
Gli diceva come fosse sola, triste e senza speranza. Gli raccontava che il mattino ha l’oro in bocca e che anche lui prima o poi si sarebbe accorto di non avere più oro da mangiare e l’avrebbe raggiunta per vivere assieme per sempre.
Passava interi pomeriggi ascoltando la madre spiegargli come far felice una donna, di come sedurla e conquistarla, di come divertirsi senza freni, come non morire mai di noia e altre cose di questo tipo. Poi con un salto temporale tipico di Tito, ricordava i tempi passati con me e i “ragazzacci” della “Melamangierei Production”, delle scopate con chiunque ne volesse un po’, della droga e di tutti i personaggi noti ed arcinoti che passavano dalle sue parti per spassarsela come senatori dell’Impero.
Poi iniziava a parlare di cose che mi erano del tutto aliene e sconosciute e sono caduto dalle nuvole sbattendo il culo dentro un catino di merda.
Dopo qualche mese di lavoro sui set non ne poteva più di tutte quelle donne intraprendenti e troppo esperte che lo facevano sentire un merdina incapace e faceva molta fatica a farselo venire duro. Quindi nel privato si prese la sua rivincita su tutte quelle matrone troppo mature che lo umiliavano.
Parlava delle sue amanti. La più anziana aveva quattordici anni. Per fortuna non era indicata l’età della più giovane. Sniffava come un mantice perché le donne della sue età lo spaventavano a morte.
Le piccole invece erano docili e inesperte, poteva “plasmarle” come meglio credeva, fare tutto quello che gli passava per la testa. Erano le sue bambole, giocattoli di carne di cui disporre a piacimento. Ovviamente quando diventavano troppo esperte il divertimento finiva e ne voleva una nuova. Ho smesso di leggere, non ce la facevo, ma sapevo anche che dovevo finire, non solo perché glie lo avevo promesso, ma anche perché volevo sapere fino a che punto quel povero ragazzo avesse disceso lo scalone dorato che porta all’inferno.
Non lo potevo in nessun modo giustificare, non aveva nessuna scusa, ma era anche chiaro che non era un assassino, non le uccideva: portava solo via la stessa cosa che gli era stata rubata da piccolo.
La purezza di spirito. Era un assassino di spiriti.
Quel maledetto derelitto appena diciottenne era troppo vigliacco per fare l’uomo, ecco il punto, e si eccitava solo con le ragazzine senza tette che potevano farlo sentire un dio greco senza difetti.
Non sono un santo: ho campato nel lusso sfrenato grazie al sesso mercenario proiettato sugli schermi di tutto il mondo. Nel 2012 feci risplendere a nuovo fulgore i cinema porno, avevo una catena esclusiva nei miei bordelli, che grazie alle nuove leggi risorsero come fenici in tutto il paese: sale di lusso come quelle dell’epoca d’oro dove la gente veniva per rivivere quelle emozioni perdute dai tempi dei loro nonni. Ci ho campato col sesso, ma, anche se potrà sembrarvi folle, ho sempre avuto una mia morale e i minorenni erano il cardine di questo mio comportamento: vietato anche solo pensare di speculare sulle loro vite. Mi sentivo un po’ perso; non credevo che Tito avesse una vita così segreta. Inoltre ne parlava con sua madre e ricordatevi che era morta vent’anni prima e lei gli spiegava che era sbagliato, ma a quanto pare a lui non importava.
Era arrivato a ribellarsi anche all’autorità materna, o almeno al suo folle surrogato.
I suoi scritti erano incasinati come la sua vita e ora capivo molte, molte cose.
Non solo perché a ottant’anni ne hai visto di mondo ma anche perché potevo entrare dentro quel casino organizzato nel suo cervello malato: potevo comprendere a fondo il perché di quella Fame e del perché non sarei morto fino a che lei avesse deciso che era giusto.
Sono il custode di entrambi: di Tito e della sua Fame, in fondo ho accettato tutto questo perché sono una testa di cazzo anch’io.
Non sono il Santo e lo sapete ormai, avevo il mio ritorno personale.
Era stato chiaro quando lo credevo matto come un cavallo da tiro, mi aveva detto che se lo avessi fatto avrei avuto tutto quello che desideravo. Non sono stato troppo ingordo infondo, ho preso quello che mi sembrava onesto, non un euro in più.
Lo so che può sembrare una cosa da mattacchioni, ma vi sto forse raccontando una storia normale? Non pensiate che sia un vecchio rincitrullito perché non è così. Purtroppo per me è tutto vero, e ha segnato tutta la mia esistenza, ogni mia azione e i miei affetti. Mia moglie non ha mai saputo.
Nemmeno i miei figli o nipoti, nessuno. Quando raggiungerò Marilyn ed Hef troveranno un plico assieme al testamento e credo che nessuno troverà la voglia di litigare per questo, ve lo giuro.
Anche se sono certo che qualche nipote pazzerello sarà lieto di portare avanti il lavoro del “Nonno”.
La verità è sempre qualcosa di brutto e questa fa davvero schifo pure a me, ma ho scelto con cognizione di viverla, non è stato come per Tito: lui ha dovuto subire tutto quanto.
Io ho accettato di fare il guardiano e vi giuro che mi è andata divinamente.
Custodire la Fame e il suo surrogato è un impegno costante, costoso e segreto. Ma forse tra la mia stirpe c’è quello giusto, decideranno loro a tempo debito. Un guardiano di cose simili credo, finisca molto male, ma non io: morirò quando voglio. Perché il patto, per la Fame, era esattamente questo: avrei potuto vivere quanto desiderassi dopo aver letto il diario; sarei morto solo dopo aver scritto tutto quanto.
Avete capito bene: tra poco, quando spegnerò lo schermo, morirò: sereno e pasciuto come la mia bella e ricca vita mi troveranno contento e morto stecchito. In fondo non si campa in eterno.
Tito no, lui e la sua Fame sono ancora vivi da qualche parte, anche se non so dove. Loro forse moriranno dopo, ma lo scoprirò solo quando arriverò all’inferno. E adesso che ho superato i cento da un po’ le ossa mi scricchiolano troppo.
E poi il dono di Tito potrebbe venire a cercarmi per chiedere di pagare il debito …
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