Credevo fossi un vero scrittore!! Ruolo d’artista nella creazione dell’opera d’arte (non necessariamente definitiva)
Questo post è gentilmente offerto da un anonimo utente di internet.
Ed è dedicato a tutti voi che ogni giorno ci provate, nonostante l’anonimato, scrittori ignoti.
Giusto ieri, cazzeggiando sul Twitter, in un momento di pausa dal lavoro qui in Officina, mi sono imbattuta in un post divertente (ti diverte solo se sei un sadico) anzi, sarcastico dal sottofondo amarognolo che mi ha fatto pensare.
Cito testualmente; i diretti interessati, se mai leggeranno questo post, sanno bene di aver interagito così:
“Leggendo il tuo racconto per un attimo ho pensato che fossi un vero scrittore”.
Giustamente, il destinatario di tale commento s’interroga su come interpretare un commento di siffatta natura. Come la devo prendere? Cosa devo pensare? Solo perché il nostro non partecipa ai salotti televisivmondani, alle isole dei cosiddetti famosi, perché non fa in un certo modo di cognome, è forse meno scrittore di questi tomi? Solo perché per mantenere lui e sua moglie deve nel frattempo recarsi tutte le mattine presso un ufficio nel quale svolge un mestiere diametralmente opposto?
A rigor di logica, secondo tale affermazione, se non hai un contratto milionario con la Casa Editrice Importante non vali una sega?
Il signor Andy Weir ha autopubblicato in versione ebook un romanzo dal titolo: The Martian. Si trattava del suo esordio.
Il suddetto ha visto l’edizione cartacea nel 2014.
Adesso è un cult.
Un signore che si chiama Ridley Scott ne ha tratto uno dei miei film preferiti di sempre. Un gran bel romanzo per un gran bel film. Quindi? Lui, prima che Ridley ne traesse un film cos’era? Era forse meno scrittore perché si è autopubblicato? Si ha meno valore solo per questo? Vero scrittore soprattutto, che cosa vuol dire?
Voglio mettere subito in chiaro: la mia non è una polemica, ma una serie di domande che mi pongo da sempre, da quando a nove anni per Natale mi feci regalare la prima Olivetti, che ancora conservo gelosamente come feticcio portafortuna. In quel periodo mi chiedevo spesso: “Ma il vero scrittore usa una Olivetti o una Remington? Ma il vero scrittore lo pagano?” Davvero se non utilizzi i canali tradizionali o ti affidi ai piccoli editori non sei qualificato? Sei un imbrattacarte fallito che non ha trovato altri mezzi per far uscire la sbobba colata fuori dal computer e dalla macchina per scrivere? No. Mi dispiace. A mio modestissimo parere siete fuori strada.
Philip K. Dick era così povero che la leggenda narra che mangiasse carne di cavallo e cibo per cani.
Il solito Ridley Scott ne ha tratto il mito. Quel qualcosa che voi umani potete solo immaginare. Phil Dick ne ha visto solo le briciole.
Affidarsi al piccolo editore è una scelta che trovo più che giusta.
In primo luogo perché non si tratta di una multinazionale che sforna cavolate a profusione; e non venite a dirmi che certi soggetti che si atteggiano a scrittori siano tutti degli Hunter Thompson solo per il fatto di venire pubblicati dalle Major, mutuando il termine cinematografico, che siano scrittori quando è il segreto di Pulcinella che i libri glie li scrivono altri: il Ghost Writer è il mestiere più ingrato e frustrante del mondo. soprattutto non venite a dirmi che oggi l’editing professionale di questi signori è sempre impeccabile o che gli scrittori di tali aziende sono dei perfetti esperti in materia: sapete tutti che non è (più) così. Personalmente trovo orrori a venti euro di grossi editori e meraviglie a dieci del piccolo. Forse è davvero provocatorio e sterile e ritrito citare Dumas, Lovecraft e Svevo?
Quante domande senza risposta. Provocazioni sputacchiate, ormai svuotate dalla speranza di ricevere risposte.
Il domandone da un fantastilione di euri è ovviamente esteso a tutta la produzione artistica.
Vincent Van Ghogh non aveva i soldi necessari per i colori e per i suoi bisogni basilari. Non riusciva a vendere nessuno dei suoi quadri, era ritenuto poco accattivante, non vendibile. Vendette presumibilmente un solo quadro in vita, ad una conoscente che forse lo acquistò per amicizia. Oggi “Il vigneto rosso” è conservato (e sorvegliato a vista) al Museo Pushkin di Belle Arti a Mosca.
Antonio Ligabue in vita cedette le sue opere ai compaesani di Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia per latte e uova. Fece lo scarriolante, ovvero lo stradino e venne scoperto per caso. Lo chiamavano amichevolmente al Matt (il matto) e solo sul finire degli anni venti iniziò ad essere apprezzato. Non divenne certo l’invitato numero uno alle feste. Oggi è universalmente riconosciuto tra i massimi esponenti dell’arte naïf.
Miroslav Tichy (di cui già ho parlato qui). Lui era il matto del paese. L’equivalente ceco di Ligabue. Abbandona presto la pittura per darsi alla fotografia. Lo fa come vi ho già raccontato.
Solo sul finire della vita è stato scoperto. Era considerato un innocuo matto che faceva finta di fotografare. Mentre ha documentato con dovizia di particolari e dettagli trent’anni di vita del suo paese con delle macchine fotografiche auto prodotte.
Lo so che sto per saltare in aria nel campo minato delle cattive intenzioni e dei desideri inespressi, sto per morire di morte violenta, ammazzata dai critici invidiosi e malevoli, che mancando di fantasia e talento non sanno riconoscerlo nel loro prossimo.
Non sto assolutamente dicendo di essere talentuosa o fantasiosa, col cavolo che lo sono.
Se fossi talentuosa e dotata di fantasia adesso avrei una mega factory con mille dipendenti con fatturati da milioni di dollari. Invece mi ritrovo qui, con solo due dipendenti e uno spazio che qualsiasi produttore di uova non vorrebbe nemmeno in regalo per le sue galline, nemmeno se le maltrattasse.
Una cosa però credo di possederla: la curiosità necessaria e l’empatia per provare a solidarizzare con questi sfortunati in vita e santificati in morte.
Sicuramente per diventare Famosi bisogna morire. Anche per diventare Grandi.
Ma il fottuto talento lo tieni solo finché sei al mondo.
Dopo sei solo una meravigliosa lapide ornata di reggiseni e pacchetti vuoti di Marlboro.
Quindi davvero, sei un tale che scrive, dipinge, fotografa solo se vieni riconosciuto accademicamente mentre ancora tiri il fiato?
Forse è così. Forse però bisognerebbe interrogarsi sulle motivazioni per cui non solo, ma soprattutto nel nostro paese, terra di navigatori, santi, eroi e Poeti si faccia una fatica boia a far vedere la luce ai propri lavori, nonostante tutti ti dicano quanto sei bravo a scrivere, fotografare o dipingere.
Non è forse sufficientemente faticoso, doloroso, estenuante scrivere (con la luce o con la penna)?
Un famoso fotografo dice che tutti possono padroneggiare la tecnica, pochi sanno raccontare e ancora meno fare poesia.
Avete idea di che immane costo umano, mentale e sentimentale sia stare seduti dietro una scrivania, sapendo che fuori c’è il sole, che i tuoi amici andranno a sbevazzare in centro, in Tivvì c’è il tuo telefilm preferito, che hai mal di denti e non riesci più a rileggere quello che hai scritto?
Provateci.
Non vi sto chiedendo di scrivere il reboot di Guerra e Pace. Voglio solo che vi mettiate seduti alla scrivania, soli, in silenzio, con la pagina bianca in fremente attesa dinnanzi a voi e di buttare giù con totale onestà intellettuale qualcosa che si riesca a leggere. Giocate anche voi a fare gli scrittori.
Dopo magari ne riparleremo. Io ci provo, a volte. Vi assicuro che mi sfinisce più che correre la maratona.
Giustamente starete pensando: i musicisti? Quelli che strombazzi di amare tanto?
Beh, loro forse, stanno pure messi peggio degli altri.
Sixto Rodriguez.
Divenuto eroe nazionale in Sudafrica.
La sua è la storia esemplare per antonomasia. Il Cenerentolo che viene ritrovato per caso. Scrive canzoni dagli anni sessanta ma non sfonda, nonostante possegga lo stesso talento innegabile di Dylan o Baez (bestemmio? Bravi, lo sapete che il Capofficina è Ateo e sta dalla parte degli ultimi) ma a causa di fallimentari scelte di Marketing nessuno lo considera. Poi per caso in Sudafrica diventa il simbolo della liberazione dall’Apartheid. Tutti laggiù, forse perché sono lontanissimi e non c’hanno internet, credono sia famosissimo in America. Da loro è più famoso di Elvis il Re.
Nemo propheta in patria sembra detto per lui.
Si, perché in America lo conoscono giusto i colleghi e i vicini di casa.
Lui per primo si è arreso al peso dello Showbiz crudele e senza criterio. Non ha lottato a sufficienza per sfondare, come giustamente avrebbe dovuto fare. Non ha forse creduto in sè stesso. Per fortuna milioni di persone a sua insaputa invece ci hanno creduto. Per fortuna anche nostra.
gli Anvil.
Canadesi che facevano un gran culo a tutti i metallari a stelle e strisce, nel senso che erano così forti da far loro il culo a strisce e veder le stelle a colpi di doppia ascia.
Durante il famosissimo tour nipponico Super Rock ’84 suonarono, o meglio, presero a martellate i fans in delirio: avevano tutti ai loro piedi, compresi Michael Shenker Group, Bon Jovi, Withesnake e Scorpions. E sapete che fece più scompiglio? Gli Withesnake? No signore e signori. I canadesi. Riparleremo di loro, perché nel rockumentary del 2008 di Sacha Gervasi c’è così tanta roba che uno non ci crede. Hanno fatto dischi, tour in giro eppure.
Hanno seguito, sono granitici, eppure le case discografiche non li cagano.
Sono i casi come il loro che mi fanno dire: “e avete il coraggio di dirmi che solo il meglio della produzione umana passa per i colossi medio grandi piccoli dell’editoria?”
Scherzate vero, quando lo dite? Sono certamente la fonte d’ispirazione per molti grandi, o comunque dai grandi vengono annoverati tra i loro pari. Forse non saranno i Cacophony, o i Dream Theater, ma porca vacca, che mi prenda un colpo apoplettico se questo non è il classico esempio di Sfiga Cosmica.
La fila all’ufficio di collocamento è lunga, in molti hanno pure fame. Non solo di fama.
Non credo che gli artisti cerchino fama e denaro. Certo, un riconoscimento degno ed onesto del proprio lavoro è cosa buona, ma non è questo a far male. Ciò che disturba è il pensiero che spesso i vincitori non corrispondono ai migliori. Non è la regola e questo credo sia implicito: Thompson e Hemingway hanno avuto i giusti riconoscimenti anche in vita. Ma credo che la loro bravura a spendersi abbia giocato un ruolo fondamentale. Un certo machismo, la passione per le armi, le dissolutezze, le donne, e la fine. Due vite tanto diverse eppure tanto uguali. La democrazia mortale della morte. Una fragilità mortale.
Ciò che fa male è sentire che tutto sfugge via, che tutto si perde o è perduto, che si è dei perdenti. Sapere che nonostante gli sforzi monolitici nessuno ti vede. Forse davvero è l’incapacità di vendersi.
E’ l’incapacità. Il non saper praticare il “Meretricio Artistico” nel modo corretto.
Il perdersi in quell’oblio che solo Leopardi trovava dolce. Annegare in un mare di solitudine, dove nessuno può tirarti il salvagente.
Quindi, di certo non abbiamo risolto il dramma, non abbiamo saputo dire che cosa ci renda riconoscibili come artisti, cosa sia un’artista: però almeno ci abbiamo provato, abbiamo posto delle domande, magari non quelle giuste, ma ci abbiamo provato. Non credo esistano domande giuste o sbagliate, esistono solo domande.
L’incapacità, la mancanza, il bisogno e il desiderio.
Se vi capita di leggere un libro, sappiate che se vi è piaciuto forse, siete di fronte a un vero scrittore.
Non abbiate paura del non accademico. Di solito non uccide. Al massimo produce qualcosa di nuovo che fa bene alla salute…
Categorie: Arte, Attualità Vintage, Libraio, Scrittoio
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