Signora Gherardini, la prego, si giri! Ed altre riflessioni sul mondo o dell’uso improprio del cellulare

E’ da un po’ di tempo che penso di scrivere questo post sull’arte, ma ogni volta che mi siedo alla scrivania vengo colta da ansia da prestazione. Vuoi perché è un argomento di una certa levatura intellettuale, spirituale e culturale, vuoi perché ho strizza di saltare per aria tra tele, trementina e lapislazzuli o perché potrei urtare la sensibilità di moltissimi di voi.

Non è certo una novità la mia insana passione per la storia dell’arte in ogni sua forma, sfaccettatura e livello popolare. Ho la passione per il cramp, il kitsch e il trashche poi a volte coincidono in maniera imbarazzante.

Nonostante questo sappiate che provo un’amore insano e fedele verso il Bello, la Perfezione delle forme e l’Armonia e quindi quando mi trovo dinnanzi a cose come la Beata Ludovica Albertoni di Bernini o Donna con collana di perle di Jan Vermeer provo un senso di compiutezza, di serena allegria, di piacere quasi fisico. Il perché non lo so, ma è così. Che sia colpa di quello che mangio, della mia famiglia, della scuola o del mio pessimo carattere, sta di fatto che da sempre considero l’Arte come il complemento necessario per stare meglio.

La pittura è qualche cosa di fisico, un atto di protesta, di ribellione, di emancipazione dal resto del mondo. Non si sceglie di diventare pittori, è semmai il contrario: ad un certo punto vieni travolto dalla puzza del colore a olio e non ne esci più.

Oggi siamo qui riuniti per celebrare un rito collettivo, un Happening, un doveroso gesto ormai divenuto social che molti di voi (non io, sia ben chiaro) hanno compiuto o compiranno. Non è una critica verso di voi, siatene certi, lungi da me dare giudizi su qualcosa che fa parte del libero arbitrio, è soltanto una riflessione doverosa che ho fatto dopo una visita al Louvre di Parigi.

Sono cresciuta col mito della Vergine delle Rocce di Leonardo.

Mia sorella, colpevole di avermi infettato col virus della passione verso questa inutile materia, che a quanto pare verrà messa al bando ed eliminata da ogni scuola di qualsiasi ordine e grado, tornando dalla sua prima scorribanda parigina mi disse: tutti a far foto alla Gioconda, io e altri tre in adorazione di fronte alla Vergine delle rocce, coi giapponesi perplessi che ci guardavano. Non puoi capire! L’acqua, quell’acqua! Sembra Reale….  all’epoca ero una studentessa delle elementari, ma quelle parole mi colpirono nel profondo. Scavarono in me un solco, una linea guida verso la fruizione non solo delle opere d’arte, ma delle cose in generale.

Mia sorella mi stava insegnando che quello che è popolare spesso è bello, a volte passabile altre volte pessimo e che come già in altre occasioni ho ribadito (leggi qui), a volte succede che la perfezione o la bellezza sia appannaggio di pochi non tanto eletti, ma di chi ha imparato ad andare oltre le apparenze del mainstream.

Stavo imparando che vedere e guardare non sempre coincidono. Mi stava spiegando, a modo suo, che le situazioni e le cose hanno un peso specifico, un valore intrinseco e che se guardi scevro dal pregiudizio imparerai sempre qualcosa di nuovo, anche da cose che presumi di conoscere bene. Nessuno nasce imparato è un neologismo che la vituperata  Accademia della Crusca dovrebbe prendere in considerazione, perché è qualcosa di leonardesco, potrebbe davvero averlo detto in più di un’occasione. E’ da qui che partirono due anni or sono queste considerazioni, da un’idea assurda che inevitabilmente mi colse dinnanzi ad un dipinto.

Il dipinto in questione è un’opera d’importanza capitale nella storia dell’arte e che sfiga vuole sia il Lato B dell’album più famoso di Leonardo di Ser Piero da Vinci.

Avete di certo capito tutti che stiamo parlando della Gioconda, olio su tavola, 77cmx53cm databile all’incirca 1504. L’album più famoso di Leonardo che Duchamp ha preso di mira peggio del Peruggia, di cui Warhol  fece una cover e che addirittura pure Carletto della nota marca di surgelati prova a riprodurre.

Non devo certo dirvi io qualcosa su Lisa. Ci sono fantastilioni di pagine redatte da persone molto più eminenti di me che ve la spiegano. Io se devo essere sincera di Leonardo preferisco Le Vergini delle Rocce, ma credo sia evidente. Non è che non mi piace, è che secondo me la Gioconda dovrebbe essere trattata per ciò che è: il Moleskine di Leonardo. Non è un dipinto, ma una sensazione, sarò eretica e per questo brucerò a fuoco lento su qualche piattaforma social, ma per me è una delusione totale.

Sapevo benissimo che è un piccolo dipinto, che il sorriso, l’ambientazione e la costruzione sono enigmi bellissimi per ogni storico dell’arte. La Monna Lisa è il sorriso per antonomasia. E’ l’equivalente di Jack lo Squartatore per ogni criminologo; pensate a quella scellerata di Patricia Cornwell, che andrebbe arrestata e lasciata lì, mica come Guillaume Apollinaire. Messa in galera perché ok, magari Walter Sikert non era Turner ma porca vacca, distruggerne le opere per fare la gradassa del pollaio, questo no (ne riparlerò, abbiate paura).

Per me è stata una delusione.

Il lato B di questo dipinto è l’ Uomo dal guanto, olio su tela, 100cmx89cm, 1523 opera di Tiziano Vecellio, il quale andò a bottega dai fratelli veneziani Bellini.

 

Ma questo guanto sarà touch screen oppure no?

 

Dipinto di importanza capitale perché qui il Tiziano fa qualcosa di davvero innovativo: è un’indagine. Tiziano sta cercando di carpire i segreti di questo giovane, che forse è Ferrante Gonzaga o magari Giambattista Malatesta, a noi poco importa, perché in fin dei conti siamo umani e la vera curiosità la ricerchiamo dentro gli occhi. Sono occhi che guardano lontano da noi, il ragazzo guarda alla sua sinistra, forse cerca un pensiero nuovo, un ricordo di chissà quale dama o semplicemente è stanco di stare in posa, Tiziano forse lo stava interrogando col suo pennello e al giovane questo non garbava. E’ innovativo perché siamo di fronte a un ragazzo che si affaccia alla vita e lo fa con disinvoltura, con la sfrontatezza tipica di chi nasce imparato, per l’appunto, come ogni giovane coglione che deve ancora imparare a fare a pugni con la realtà e che invidiamo per questo. Ha quel guanto che sembra doverci schiaffeggiare all’improvviso, con quella sua volumetria tattile. Un indagine psicologica non certo di facciata, ma vissuta, pensata desiderata. Guardiamo, scrutiamo l’intimo desiderio di vita di questo giovane ricco, certamente destinato a grandi cose o perlomeno a grandi fortune materiali. Tiziano però cerca altro in lui. Ne coglie lo sguardo di sottecchi, per sottolinearne l’imbarazzata e gagliarda freschezza, che nel medesimo istante ci dice che questo è un ragazzo che ha già intravisto un po’ di mondanità.

Sapete perché sono rimasta male? Lo avete già capito. Non solo perché in effetti La Vergine delle Rocce è un olio su tela imponente, maestoso che nel mio modesto e perverso ordine delle cose ha una potenza devastante. Ci sta raccontando la storia di un attimo, ma non solo: noi vediamo e capiamo immediatamente che siamo di fronte a un dramma epico, alle vite di due bambini che cambieranno il mondo, lo percepiamo da come la Madonna protegge Giovanni, sa che di lì a poco  perderà per sempre entrambi. Protende la mano verso suo figlio, sa che lo dovrà cedere al mondo e ne prende atto. Guarda in basso, certa che il destino dovrà compiersi volente o nolente. Che non sono due bambini come gli altri. Gesti in apparenza giocosi che nascondono il mistero del sacrificio. Una madre che come tante altre controlla i bambini, ma che in verità sta facendo altro: prende atto della potenza delle cose. E’ tantissimo in un solo colpo d’occhio, non vi pare? Il mio dispiacere nasce dal fatto che in effetti non fai fila di fronte a una storia epica dalle dimensioni immani, ma soprattutto che invece le persone davanti a quel piccolo Moleskine diventano isterici.

Sapevo benissimo che avrei trovato lì il vero spettacolo, di aver fatto fila per entrare non tanto in una delle collezioni d’arte più belle e prestigiose al mondo, ma per assistere al più assurdo spettacolo teatrale che ogni giorno senza soluzione di continuità va avanti senza interruzioni anche grazie al furto da parte di Vincenzo Peruggia.
Le persone nemmeno la guardano. Alzano il telefono/macchina fotografica senza nemmeno aspettare il loro turno per andarle vicino. Si fanno selfie, video, si spingono. Quello che conta è poter scrivere su Facebook: MeToo. Quello che occorre è poter fare il figo dicendo che si, anche io mi sono fatto un selfie con Lisa Gherardini.
E’ surreale, soprattutto per chi è stato abituato a fruire dei musei come luoghi di un culto pagano, dove viene celebrata non la morte bensì la vita delle opere, non il sarcofago dolente sul passato ma  spazio dove esperire le idee e le conoscenze di un passato, raccolte di momenti, pensieri e azioni.

Mi ha colpito ancor di più girare dietro, sana e salva dalla ressa accaldata e accalcata, al piccolo dipinto e trovarvi lui, il giovanotto di Vecellio. Mi sono sentita intimorita e grata. Intimorita dalla potenza del colore nero, dalle sfumature degli abiti e dello sfondo,  da quel guanto che ti vien voglia di prendere, quella bellissima mano candida, mollemente abbandonata come fosse una tigre nella giungla che riposa in attesa di chissà cosa. Pensi a quella mano che sfiorerà tanti visi, che picchierà forte, che saprà dare l’estremo piacere agli amanti, che chiuderà gli occhi al sonno eterno degli amati. E’ una storia talmente prepotente che mi ha sconvolto. Ho letto, nelle pieghe di quel guanto, tutta la potenza non tanto del colore, ma la maestria del Vecellio a raccontarci una storia senza aprir bocca. Un gesto in apparenza banale in grado di restituire una storia lunga una vita. E’ troppo persino per un dipinto? Io non credo.

 

Eh, giovanotto, ci facciamo un selfie?

 

Sono rimasta scioccata dalla totale mancanza d’interesse generale per questo capolavoro. Esci sconvolto e turbato dall’incontro con Lisa, deluso, scocciato dalla maleducazione di chi l’approccia come fosse il nuovo prodotto di punta di Cupertino e poi nel silenzio fresco dell’abbandono vieni schiaffeggiato, è il caso di dirlo, da quel guanto cantastorie.

Mi ha lasciato una profonda consapevolezza: che a volte è vero, il bello, quando è troppo, viene smarrito. Ho capito a un solo sguardo che la bellezza non è per tutti, anche se tutti la ricerchiamo. La bellezza è di ceto dentro i miei occhi, ma non ne sono del tutto convinta, certamente cerco la bellezza, mi lascio meravigliare, mi abbandono senza timore al bello e non ho paura. Mi avvicino col candore del primo sguardo, del primo amore.

Quello che ho capito, lì davanti, che forse Stephen Hicks ha ragione quando descrive l’orinatoio di Duchamp e che in troppi  hanno preso in parola.

E’ vero, l’arte è qualcosa su cui puoi anche pisciare. Bisogna però saperlo fare con classe…

 

 

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