Furfanti, Canaglie, Nuove speranze e un addio inaspettato: Rogue One o la riproducibilità all’infinito
A questo punto dell’anno avevo pronto il Gran Finale del 2016, ma si sa, la vita a volte fa quel cazzo che le pare e quindi mi ha incasinato tutto quanto.
E’ con uno spirito completamente differente che mi accingo a parlare di Rogue One: a Star Wars Story. Come sempre, dalla Minaccia Fantasma in poi non mi sono fatta illusioni su cosa avrei visto. Faccio parte di una fazione molto particolare di Appassionati della Saga: sono purista, ma aperta a tutto quello che può portare un’ondata di novità e Grazia in qualcosa che da uno squisito punto di vista Cinefilo è pressoché già Perfetto così.
George Lucas ha inventato (preso a prestito da Platone) una Saga che, come quella di Tolkien, contiene tutti gli stilemi e i temi del mito nel senso più classico possibile: eroe, antieroe, antagonisti, spalle comiche, Amore, Morte, tradimento, impegno, prese di coscienza, e soprattutto Il viaggio dell’Eroe di Chris Vogler, testo che tutti gli studenti studiosi di cinema e comunicazione hanno inevitabilmente inglobato assieme alla riproducibilità tecnica di Benjamin e alle fiabe di Propp e che inevitabilmente hanno aiutato a segnare i nostri immaginari. Lucas (che è proprio bravo) non si è fatto schiacciare dal peso dell’eroe, lo ha preso per un braccio e lo ha trascinato sullo schermo creando la Saga fantascientifica (e non solo) più bella e completa di sempre. Noi quindi abbiamo il compito di non farci inglobare e schiacciare da testi che sono si di riferimento, ma in fondo solo guide di lavorazione. Ho amato così tanto Star Wars, una nuova speranza che quando lo vidi per la prima volta alla televisione mi dissi che da grande anche io avrei creato mondi immaginari con la macchina da presa, si insomma. Avrei fatto cinema. Crescendo poi sbatti la faccia contro due o tre cosine, ma questo è irrilevante e magari ve lo racconto un’altra triste sera, ma non adesso. Io e i miei amici cominciammo la nostra iniziazione Jedi a colpi di manici di scopa (e improponibili treccine legate sopra le orecchie da mia madre) e lotte forsennate nella Forza. Era quello che mi piaceva, l’idea di usare la Forza, un insieme di coraggio, determinazione, fede cieca, fatica, concentrazione e speranza. Star Wars voleva dire sperare che le cose sarebbero state meglio di come si presentavano. In una galassia lontana lontana dove le persone erano semplici ma forti, sicure e soprattutto felici a modo loro.
Mi sono interrogata spesso, come molti credo, sul perché una serie di film come quella abbia colpito così tanto la mia immaginazione. Non è certo la serie di tre pellicole migliori, ha dei limiti, ma limiti tali che la rende unica, irripetibile, senza bisogno di aggiungerci altro. Quindi, cos’è? E poi so cosa rispondere: che sospendo la mia credulità in maniera fedele e cieca senza farmi nessuna domanda. Il manico della scopa di mia madre è una spada laser e lo scatolone di un televisore è il Millennium Falcon. E’ l’unica serie di film che posso vedere sapendo di riuscire a Meravigliarmi ogni volta. Come quando vedo il modulo LEM allunare dolcemente in riprese in bianco e nero, come fosse sempre la prima volta. Intendiamoci, so bene che il purismo maniacale oscurantista di certi fan è fuori luogo, ma mi inserisco certamente nella fazione dei nostalgici senza scampo. E’ che anche un atea agnostica razionalista può credere in qualcosa senza rimanere accecata dalla fede.
Ho visto la Minaccia Fantasma al cinema col batticuore: come tutti non ho trattenuto un applauso all’inizio dentro la sala gremita di Padawan, cavalieri Jedi, Darth Vader e principesse Leia. E’ una delle rare eccezioni di film mainstream che consente agli adepti di presentarsi come i maniaci dei film di mezzanotte anche per il the delle 17. Alla fine mi sono sentita tradita, svuotata. Stesso copione per La guerra dei cloni e La vendetta dei Sith. Avevano saltato lo squalo bianco e quest’ultimo se li era pappati sputazzando le colonne vertebrali rimaste tra i denti del mostro. Troppa informatica a discapito di tutto. Togliendo l’ideale di fondo della Vendetta dei Sith, che è molto forte, quasi mistica, non rimane molto. La sovrastruttura informatica è invecchiata peggio di Sofia Loren e oggi si vede. La vendetta dello Jedi risente molto meno dello scorrere del tempo. Ed è paradossale, visto che parliamo di un film del 1983, ma così è. E’ come se prendiamo fuori dalla soffitta il Game Boy e lo mettiamo vicino alla Play Station. Identico effetto. Se poi, come detto sopra, aggiungiamo una pochezza generalizzata è chiaro che quel vecchio volpone di Lucas doveva fare cassa e tentare di fidelizzare una generazione di giovani Padawan abituati all’ HD. Pazienza. Ho stretto i denti fino all’episodio VII. Finalmente (apparentemente, chiaramente apparentemente…) meno tecnologia, ma. Allora, va bene l’uccisione del padre fricchettone da parte del figlio Hipster, purtroppo l’iconoclastia pressappochista che spesso contraddistingue noi figli è devastante. Ma in generale il film non supera le aspettative di tutti. Ad essere onesta a me non è dispiaciuto per alcuni motivi. Primo la presenza di Adam Driver nei panni del figlio sfigato. Poi il figlio sfigato. Ma soprattutto il fatto che il figlio sfigato sa tanto di giovane d’oggi. Sin dal primo film tematiche d’attualità venivano poste a base delle storie. In particolare i rapporti familiari. Nei primi anni ottanta rivelare che qualcuno era tuo padre aveva una certa potenza. Oggi che abbiamo famiglie con tre padri, quattro madri, amanti, fidanzate, nonni assenti, amici virtuali, insegnanti precari, qualche baby sitter nessuno ci farebbe nemmeno caso. Abbiamo visto Dallas e Dinasty, cosa potrà mai scandalizzarci? Ma vedere un figlio, chiaramente trentenne, sfigato, in preda alle ansie e al desiderio incontrollabile di uccidere tutto ciò che non vuole essere… è tremendamente Gioventù Bruciata 3.0. Le ansie di una intera generazione che rischia di essere ricordata più per 140 caratteri che per le conquiste marziane è palese. Abbiamo paura di non essere ricordati. Il film numero VII quindi ci regala una nuova speranza col finale potentissimo: Mark Hamill nel ruolo di un (quasi) anziano Luke Skywalker. A quel punto tutti i vecchi cinefili burberi come me si sono sciolti e hanno pensato: va bene brutti stronzi, ci vediamo la prossima volta.
e quindi arriviamo all’oggi e alla nuova (costosissima) fatica della (infallibile) Disney: questo film separato dalla saga, che cerca di dare un senso al messaggio di Leia Organa nel primo (quello vero) film. Che cerca di dirci che finalmente stiamo vedendo un film di cui possiamo dire con orgoglio: “alla fine muoiono tutti”. Un film che a tutti è piaciuto un casino. A tutti tranne che al Capofficina. E vi giuro che mi sento molto a disagio per questo, mi sento (come sempre) strana, differente, fuori dal coro.
Allora, ci sono cose mitiche: non ci sono le tendine, la colonna sonora, l’icipit iniziale. Gli effetti speciali informatici sono (apparentemente…) ridotti all’osso. Un momento: non esattamente. Adesso arriva uno dei fattori di maggior disagio per me.
il primo è l’apparizione del Gran Moff Tarkin. Esatto. Peter Cushing è scomparso nel 1994, quando ancora mi comperavo le merendine in lire. Non che mi spaventino i morti, anzi. Ma è morto da un bel po’ e questa cosa del CGI (computer generated imagery) mi mette un pochino di ansia. Tarkin è un personaggio di primo piano e mi chiedo: e se lo candidano all’Oscar, chi lo ritira? Tim Cook? Bill Gates? Davvero, non sto scherzando. Non tanto perché potrei vedere il sequel di Heartbreak Hotel, no. Ma perché qui siamo una frontiera più avanti rispetto all’Uncanny Valley. Durante le riprese de L’impero colpisce ancora, Peter Mayhew, l’indimenticabile attore che interpreta Chewbacca ebbe dei problemi di salute e venne sostituito da un altro attore. La cosa si notava (anche in Officina abbiamo detto qualcosa in proposito di sostituti, vedete pure qui se non ci credete) e quindi si decise di aspettare la fine della sua convalescenza. Peter non era riproducibile (ancora). Riprodurre qualcosa che già di per se è riproducibile con una tecnologia tanto subdola da ingannarti è pericoloso, non solo perché l’attore potrebbe diventare ininfluente, una suppellettile tra altre banali suppellettili snaturando per sempre il Mestiere dell’Attore (nobile e tremendo) ma anche spostando per sempre gli assi della visione cinematografica. Verso qualcosa che è altro, alieno, impossibile da comprendere; non perché l’umanità sia troppo ignorante, ma proprio perché è troppo, paradossalmente, umana. Esistono già i cartoni animati e la computer grafica, che ci fanno capire “a prima vista” che siamo di fronte ad un inganno bello e buono. La CGI invece si installa in qualcosa che è si fasullo, ma al tempo stesso reale, tangibile (e penso anche alle inquadrature hitchcockiane viste da fuori) che viene interpretato da uomini; in questo modo diventa un inganno alla seconda. Una gara di bari tra canaglie. Indubbiamente dal punto di vista dei Nerd Geek tecnologici ad ogni costo la CGI è una grossa cosa. Da certi punti di vista può esserlo. Ma siete certi di voler vedere un film con Christian Bale, Brandon Lee e James Dean? Io no. Sarebbe troppo anche per me. Non è un tabù, credo sia solo snaturare un meccanismo che non ne ha bisogno.
Gli effetti speciali visivi sono splendidi, davvero. Alcuni dialoghi sono passabili, ma al contempo statici, ingessati, riduzioni semplicistiche di qualcosa di grandissimo inserito in un caos organizzato ma troppo fitto. Troppe cose, un surplus d’informazioni che a tratti mi ha confuso e tolto fluidità alla visione.
I personaggi “nuovi” sono davvero spettacolari: Cirruth Imwe, guerriero cieco e prototipo perfetto di cavaliere Jedi che col mantra “La Forza è con me. Sono tutt’uno con la Forza” sembra poter sconfiggere la morte, sembra. Perché alla fine Cirruth, come il suo armatissimo amico Baze Malbus sono eroi, in senso vero: gli eroi sono quelli che s’immolano per una causa più grossa di loro senza chiedere scusa. La loro morte è legata all’ecologia stessa del film. E che dire del capitano Cassian Andor? All’inizio vedi subito che è un gran stronzo, ma uno stronzo col cervello funzionante, comunque capace di togliere le castagne dal fuoco ai vecchi fifoni che preferiscono lasciare la speranza di un riscatto fuori dalla porta. Jyn, (come i demoni musulmani?) la figlia di Galen è una tosta: immagino una versione Nerd dei film sulle principesse con lei, Organa e Rey, wow.
Saw Guerrero, il ribelle estremista interpretato in modo magistrale da Forest Whitaker è un personaggio uscito (quasi) dalla penna di Marquez: un vecchio ribelle (apparentemente) stanco, pieno di cicatrici e segni della battaglia, che si appoggia al suo bastone e si veste con la sua bandiera come un vecchio oppositore sudamericano e che muore senza chiudere gli occhi di fronte alla Nera Signora, fantastico. Perché nessuno scrive al colonnello nell’autunno del patriarca nella città fantasma di Macondo.
Anche se ad essere del tutto sincera il mio personaggio preferito è Bodhi Rook, il pilota imperiale ribelle. Sembra il solito piccolo traditore doppiogiochista pronto a tutto pur di furbeggiare, invece no, è tutt’altro. Bodhi è fuggito davvero, vuol esser parte di qualcosa di più grande che possa riscattarlo: porta un messaggio per Saw, da parte di Galen Erso, ingegnere imperiale part time, potremmo dire, e nessuno gli vuol credere. Lo torturano ma non cede. La Forza è grande anche in lui. E’ il mio preferito perché nonostante tutte le avversità e l’apparente svantaggio fisico è un vero eroe, come quelli di Iwo Jima o del D-Day; un giovane della porta accanto, senza muscoli, piccoletto, che incarna perfettamente lo spirito degli abitanti di quella Galassia lontana lontana: furbizia, forza interiore, coraggio. Bodhi è la chiave della riuscita dell’operazione, deve rimanere sulla nave, lontano dalle pallottole ma con l’incarico di comunicare con la flotta dei Ribelli, deve dire loro di aprire il varco per ricevere i piani della Morte Nera. Non ha lui fisicamente i piani, ma senza di lui e il suo coraggio gli stessi non potrebbero andare da nessuna parte. La bellezza di questa parte consiste nel fatto di sfruttare abilmente la caratteristica fondamentale della Saga: tecnologie novecentesche al servizio di tempi e spazi differenti. La grande antenna che trasmette i dati sembra una di quelle del progetto S.E.T.I., e Jyn Erso è una Ellie Arroway extraterrestre, una specie di chiusura del cerchio (nel grano). Qualcuno lassù ci ascolta. E abbiamo ancora bisogno di Guglielmo Marconi per farlo. Credo sia la parte migliore del film, quella che paradossalmente è così umana da risultare plausibile anche tra le lune imperiali.
Non mi sono Meravigliata. Mi è piaciuto molto, sia chiaro e adesso che scrivo dopo aver messo una notte di sonno tra me e lui ne sono ancora più certa. Non sono uscita con tutto il film dentro gli occhi. La prima ora parte lenta, con tanta carne al fuoco: certamente l’intimismo viene delineato ma a volte mi ha confuso, senza lasciarmi una linea narrativa fluida da seguire. Sempre i Buoni e i Cattivi, semplicisticamente dipanati perché effettivamente per studiare la storia della seconda guerra mondiale e la lotta al nazifascismo potremmo impiegare anni. Bellissime le scene di guerra del secondo tempo, uno sbarco in Normandia, una battaglia delle Ardenne, un offensiva del Tet in piena regola. Avevo sempre la sensazione che da un momento all’altro avrei visto un vecchio schermo televisivo trasmettere il video di One dei Metallica. Le inquadrature sui mezzi mi hanno in effetti ricordato Platoon, ma questo sinceramente non mi è bastato.
Esaltante la presenza di Darth Vader nel ventre oscuro pieno di liquido amniotico di una madre sterile e tecnologica che lo rimette al mondo una seconda volta, esaltante la sua presenza sottolineata anche dal tema musicale e dalla sua spada laser Sith, pronto a uccidere chiunque lo intralci. Per un attimo (sublime) s’intravede Chewbacca che spara su una navicella ribelle, R2D2 e C3 – PO fanno la loro battuta di circostanza, senza dimenticarsi del meraviglioso robot K2 SO, nel solco tradizionale della spalla che da comica si tramuta in eroica, pronta ad immolarsi per il bene della causa, che alla fine è più grande di tutti loro, li sovrasta. Muoiono tutti: nessuno si salva perché in natura la vita ha senso solo se anche la morte trova il suo posto. Tutto sembra perduto, ma alla fine c’è speranza, perché ogni ribellione si fonda sulla speranza stessa.
Il film funziona perché anche qui, come negli originali Star Wars i generi vengono travalicati senza paura: il western, il film di guerra, il romantico, il comico, l’avventura. Ogni genere si fonde l’uno nell’altro e il regista britannico Gareth Edwards, giovane e molto valido non ha paura di farlo. Il film funziona perché i nostalgici ritrovano i vecchi amici, come durante la rimpatriata del liceo, ecco perché. Ma nonostante tutto non ho sentito quell’euforia che mi coglie ogni volta che vedo con tutti gli occhi, fino al nervo ottico. Questa volta si è fermata ai bulbi oculari.
E quindi, come un’apparizione (inquietante) vediamo la principessa Organa giovane e bella e senza tempo ricevere il famoso messaggio coi piani della Morte Nera che per anni abbiamo fantasticato ognuno a modo suo. Una nuova (finalmente chiarita) speranza ha inizio.
Appena uscita dal cinema, con la coda tra le gambe, ho acceso la radio.
Un’ultim’ora non troppo inaspettata purtroppo annunciava al mondo che Carrie Fisher era passata alla Forza. Era morta dopo l’infarto che per dieci minuti l’aveva lasciata in anossia a bordo di un aeroplano.
Il nuovo capitolo della Saga, che dovrebbe uscire l’anno prossimo vedrà la sua presenza, secondo la produzione le sue scene sono già state girate tutte, ma a questo punto non ne sono del tutto sicura, un dubbio sarcastico e dissacrante mi rimane.
In quel momento ho provato un vago senso d’impotenza, di tristezza vera, palpabile. Leia è stata anche la mia principessa, la mia salvatrice, il mio (inarrivabile) modello. Ero una bambina cicciona che si pettinava come lei, cercava di avere la sua stessa forza e grinta, che sognava un giorno di trovare il suo posto nel mondo.
Anche se io non potevo saperlo la sua vita reale non era piacevole. Tossicodipendenza, alcolismo, sindrome bipolare.
A volte il successo è davvero una cosa pessima. Imprigionata e allo stesso tempo incastonata in un personaggio mitologico, classico, unico (a modo suo) nella storia del cinema; sfortunatamente fortunata Carrie Fisher era tornata grande proprio (re)interpretando il ruolo maledetto e sublime di tutta una carriera. Accettando tutta la fragilità del tempo trascorso, senza ricorrere a bassi trucchi di trucco, a chirurgia plastica o diavolerie simili. Leia è una donna stanca, invecchiata ma sempre orgogliosa e forte che accetta la morte di Han e la cretinaggine del figlio. Era una delle cose migliori di tutto il film e speravo di vederne delle belle la volta dopo. Perché tanto ci casco ogni sacrosanta volta, mi dico: basta, tutti i frigoriferi sono esplosi, stanno raschiando il fondo del barile, ma no, è più forte di me e vado al cinema possibilmente il primo giorno di uscita prenotando con largo anticipo il biglietto. Ci vado perché Star Wars è il motivo per cui ho studiato cinema, per cui da bambina mi ero convinta che avrei fatto l’astronauta, per cui non ho più smesso di sognare. E’ parte della mia formazione umana e professionale. Credere di poter andare su Marte con uno scatolone, un manico di scopa e del nastro adesivo argentato.
Leia è passata dall’altra parte. In questo anno tremendamente sfortunato.
A questo punto m’interrogo, perché anche nel finale di Rogue One vediamo Leia in versione CGI.
Vedremo forse anche David Bowie interpretare qualche dottore pazzo nel prossimo capitolo. Adesso tutto è possibile.
Categorie: Attualità Vintage, Cinema, Cinematografo, Personaggi
Lascia un commento